venerdì 27 gennaio 2012

Perchè in inglese?

Sarà anche la lingua di Shakespeare, sarà la lingua del nuovo mondo, sarà pure facile da imparare ma, lo ammetto, a me l'inglese proprio non piace, e faccio fatica ad accettare che ormai sia diventata la lingua di scambio ufficiosa, e spesso ufficiale, in tutto il mondo.
   In primis è proprio brutta: poco musicale ed inespressiva. Ma come, abbiamo l'italiano, lo spagnolo, il francese e, per chi ama gli scioglilingua, persino il tedesco e, alla fine, parliamo in inglese? Semplicemente ridicolo.
   Ci sono stati periodi, nella storia, in cui in tutte le corti d'Europa il francese era di rigore. Gli ingegneri, fino agli anni cinquanta, parlavano tutti il tedesco, ed i medici erano costretti a conoscere il francese in quanto tutte le pubblicazioni più moderne si facevano in quelle lingue. Gli ecclesiasti parlavano correntemente in latino ed i cattolici dovevano apprenderne, volenti o dolenti, almeno i rudimenti. L'inglese, fra le persone di cultura, non veniva studiato, perferendogli il greco antico che, pur non essendo particolarmente utile nel commercio, le distingueva dal popolino. Inoltre non dimentichiamo l'arabo, lingua nella quale sono stati scritti molti trattati di medicina, di matematica e di astronomia. Insomma, di tutte le lingue conosciute l'inglese sembra essere la più improbabile come lingua universale. Teniamo presente che, fra l'altro, esiste l'esperanto, lingua "artificiale" nata proprio per consentire il superamento delle barriere linguistiche con il minimo sforzo. Eppure, ciò nonostante, ormai l'inglese si è imposto come lingua universale, costringendo chi non è di madrelingua ad apprendere una lingua che presenta difficoltà analoghe a tutte le altre lingue naturali ma che, in compenso, è innegabilmente brutta.
   In Italia, patria delle lingue romanze, lo studio dell'inglese è un obbligo scolastico mentre quello del latino è, ormai, facoltativo anche al liceo. Nelle varie sedi dell'Unione Europea la lingua franca è l'inglese e, quando si scrive un brevetto europeo, pur potendo scegliere fra francese, inglese e tedesco, si finisce sempre per la stesura in inglese in modo da facilitare le pratiche di estensione al di fuori dell'Europa. Quando, all'estero, si cerca una lingua comune con persone sconosciute, si prova in inglese (ed eppure, non molti anni fa, ho sentito mio padre parlare in latino con degli autostoppisti tedeschi). I libri tecnici sono pubblicati prima in inglese e poi nelle altre lingue e gli articoli dei ricercatori italiani sono spesso scritti solo in inglese. I ricercatori ucraini sono penalizzati dalla scarsa conoscenza dell'inglese (eppure quasi tutti parlano correntemente il tedesco) che gli impedisce di comparire da "pari" sulla scena internazionale. Insomma, l'inglese è diventato indispensabile e questo a scapito di altre lingue altrettanto meritevoli di attenzione e, specialmente, dell'esperanto che, per la sua stessa concezione, può essere appreso a livello soddisfacente in un tempo molto breve.
   Eppure, è bene ricordarlo, il linguaggio influisce pesantemente sul pensiero. Pensare in una lingua o in un altra porta spesso a processi mentali e conclusioni differenti. Ed allora, non è che questa forma di colonialismo linguistico, alla lunga, ci porterà a diventare, Dio ci scampi, tutti inglesi? Già adesso assistiamo ad un progressivo impoverimento della nostra bella lingua. Errori che, anni fa, sarebbero stati corretti in rosso, come gravissimi, oramai non meritano neanche l'attenzione della matita blu. La "consecutio temporum" diventa un pallido ricordo e le frasi telegrafiche, da telefonino, entrano nel linguaggio abituale non come segno di un pensiero frettoloso ma a pieno titolo, indici di grande capacità d'interpretazione. 
   Ebbene, no. Evitiamo per favore di diventare inglesi ed americani. Niente di personale contro di loro, noi non siamo migliori, ma siamo diversi e diversi rimaniamo, orgogliosi di esserlo.
  

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