martedì 10 marzo 2015

Paquero

E' un bel po' che non scrivo, un po' perché il tempo è quello che é, un po' perché, da quando sono in questo paese, preferisco osservare che scrivere. Osservo la gente, i posti ed i comportamenti e, in questo ruolo di osservatore, preferisco tacere ed apprendere, piuttosto che sentenziare rischiando di parlare spinto dai miei pregiudizi. Domenica, però, mi è successa una cosa talmente signficativa che non posso non parlarne, una cosa che dà, a mio parere, una visione chiara della attuale società argentina.
Stavamo andando, io e mio figlio, ad una mostra fotografica. Mia moglie e mia figlia ci avevano preceduto, muovendosi in auto con amici, e noi aspettavamo l'autobus, il "colectivo" 130, alla fermata che si trova in avenida Libertador all'altezza di Juramento. Stiamo parlando di una zona ricca di Belgrano, quartiere di per sè ricco della città ma, poiché giocava il River, l'intera porzione di quartiere compresa fra Libertador ed il fiume, si era trasformata in un parcheggio.
Succede, in questi casi, che molti ragazzi vengano dalle villas per conquistarsi un pezzo di strada nella quale, come gli abusivi che un tempo riempivano le strade delle città italiane, si fanno carico di far parcheggiare le auto e, per una piccola cifra, controllano che nessuno le danneggi. In realtà, pare che si tratti di un obolo volontario obbligatorio, nel senso che, se uno si rifiuta di pagare, non è improbabile che, tornando dallo stadio, scopra di dover tornare a casa senz'auto, ma non è esattamente di questo che volevo parlare.
Insomma, eravamo alla fermata quando arrivano 3 ragazzi, un maschio e due femmine, di età indefinibile compresa, diciamo fra 13 e 16 anni. 
Si trattava abbastanza evidentemente di villeros. Delle due ragazze una, grassoccia di quel grasso dato dal cibo spazzatura,  priva di muscoli addominali, sporca, senza un incisivo, con una cicatrice sul labbro superiore che giustifica la mancanza del dente e, ciò nonostante, sorridente, si siede a parte sulla panca della fermata mentre il ragazzo e l'altra ragazza, un po' più curata, con un po' di trucco economico ma mal dato e troppo pesante per l'età, si siedono assieme.
Tutti gli argentini presenti si allontanano dalla panca, guardando i ragazzi con sospetto. Io pure, devo ammetterlo, sposto il portafogli dalla tasca posteriore dei calzoni, dove è facile il borseggio, a quella laterale, ma intanto inizio a domandarmi cosa ci fanno, questi tre, sull'autobus, visto che il grosso delle auto deve ancora arrivare, e continuo ad osservarli, affascinato. Tra ragazzi normali, penso, che in un altro contesto andrebbero a scuola, leggerebbero, studierebbero e si preparerebbero a fare la loro parte per cambiare il mondo prima di scoprire che, in realtà, il mondo non si cambia così facilmente.Tre ragazzi che, però, non sono nati nel mondo che noi conosciamo e che, in una villas, hanno visto e sentito abbastanza per perdere l'innocenza. 
Ed allora, ecco che il ragazzo inizia a stare male, a tossire, e si chiarisce finalmente perché, malgrado ci sia ancora la possibilità di guadagnare qualche decina di pesos, stanno rientrando. Il ragazzo si china, è evidente che prova dolore e che i polmoni non riescono a portare abbastanza ossigeno al sangue. Tossisce e sputa più volte e, fra il muco e la saliva, ci sono strisce rosacee che non fanno presagire nulla di buono. E' evidentemente molto debole e la ragazza, la seconda, quella messa meglio, lo accudisce come può, parlandogli e colpendolo fra le spalle con una forza misurata e, glie lo leggo nei movimenti più che negli occhi, con una pena ed una dedizione infinite, quasi materne.
Non ci vuole un genio per capire che il ragazzo fuma paco e che ha i polmoni bruciati, né ci vuole molto a capire che, per la ragazza, non è una esperienza nuova, che ne ha visti altri sputare i polmoni per terra e poi morire. Tranquilli, non morirà di questo, per gli affezionati del paco la morte giunge rapida e pietosa per la distruzione delle cellule cerebrali o, a volte, per cirrosi, non si fa a tempo a morire di polmonite. Il paco lascia a chi comincia una speranza di vita di 6 mesi, non è poi molto diverso da una eutanasia prolungata no?
Uno spettacolo penoso, tanta giovinezza buttata via, tanto amore gettato prima che possa crescere, una vista che,  a chi ha figli adolescenti, può spezzare il cuore. Mentre mi domando cosa posso fare per aiutare questi ragazzi, scartando immediatamente l'idea di dar loro del denaro ma domandandomi se, per caso, possa servire acqua o altro che non sia convertibile in paco e, nel frattempo, cerco di spiegare come posso a mio figlio la situazione, in modo che possa servire da insegnamento, scopro una cosa che mi addolora ancora di più della sorte di quei poveri ragazzi.
Delle persone presenti alla fermata, non uno manifesta, nello sguardo, compassione. Si viaggia dall'indifferenza alla paura, dall'odio all'orrore ma compassione no, quella proprio no.
Mi verrebbe da dire, da urlare, che è un bambino, cazzo, poco più che un bambino. Che ha una speranza di vita di pochi mesi, che ha una amica/sorella/ amante, qualcuno al suo fianco che lo ama e lo accudisce e che forse gli terrà la mano fino a che l'ultimo barlume di coscenza non abbandonerà quel cervello distrutto ma che, in realtà, non ha altro che quello e che, alla fine, non è certo colpa sua se si trova in quella situazione. Mi verrebbe da dire che vorrei cambiare le cose. Mi verrebbe da dirlo e poi non dico niente.
Chi sono io per criticare gli altri, esasperati dalla violenza e dalla insicurezza.
Chi sono io per dire che solo riconoscendo in questi ragazzi gli esseri umani che stanno sotto la sporcizia si possono cambiare le cose.
Chi sono io per dire che che veramente si possono cambiare le cose.
Chi sono io.

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